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XILON-B, FENOLO E MOLTO ALTRO ANCORA: Un Cardiologo sul treno della Memoria


11 febbraio 2012. Questo non è un inverno come un altro. E’ da un mese che una massa d’aria siberiana gira e gira sull’Italia e dintorni, mettendo in ginocchio trasporti, paralizzando servizi essenziali,  persino  uccidendo  persone. Ma il treno della memoria pareva  insensibile alla logica che lo voleva  annullato, inghiottito dai comunicati ufficiali sul maltempo  e davvero quella notte tutti ci alzammo a ore impossibili per trovarci pronti all’imbarco, come spinti da una sete antica di conoscenza. Nessuno fallì la chiamata e le perplessità,  la stanchezza, i dubbi e i ripensamenti sparirono al teatro Petruzzelli di Bari, stipato di giovani  fino all’inverosimile, quando Paolo Paticchio, il capo della spedizione,  col microfono in mano parlò col cuore sul significato di questa specie di pellegrinaggio laico, strappando lacrime e applausi.

16 febbraio 2012 . Ora siamo qui di nuovo tutti riuniti  per il ritorno, su un treno che lasciatasi alle spalle Cracovia  stenta a prendere velocità, atterrito dalla neve, dal carico, forse dal gioco delle coincidenze con i convogli di linea. Non ho voglia di tracciare bilanci, mentre questi ragazzi con i quali ho vissuto per giorni condividendo tutto, tanto da scoprirmi ragazzo anch’io, scherzano tra loro emettendo suoni gutturali e scambiandosi a volte amichevoli manate, pesanti vedo, ma mai cattive.
Ero abbastanza preparato ai campi di sterminio. Tra gli stermini di massa forse la Shoah  è quello più assurdo e per certi versi paradossalmente privilegiato. Si sa tutto sui treni, sui vagoni bestiame  carichi di merce umana, in massima parte ebrei, sulle stazioni da cui partivano, su coloro che conducevano i treni, sulle stazioni che attraversavano, sul silenzio assordante che circondava le grida, l’orrore, il delirio umano. Si sapeva tutto sull’arrivo alla banchina di Birkenau, sulla discesa lesta e speranzosa della moltitudine stremata ma ancora inquieta in un barlume di incertezza , sull’ufficiale nazista che selezionava mentre altri percuotevano: tu di qua, tu di là, tu di qua, tu di qua ecc ecc.
Di qua sarebbe subito alle camere a gas, dove si accedeva da uno spogliatoio sotterraneo, pieno di panchine e attaccapanni, ove campeggiavano  scritte gentili che esortavano a mettere tutto in ordine, per ritrovare poi tutto dopo la doccia che scorreva bella calda calda nella stanza accanto, ma occorreva fare presto se no l’acqua finiva, ove si ammucchiavano a centinaia, stipati come topi o sardine, il tedesco serrando allora la porta dall’esterno e via con lo xilon B a massacrare e poi i sounderkommando ebrei a spettacolo finito entrare nelle camere, estrarre i denti di oro, rapare i capelli,    trasportare questa massa di cadaveri con elevatori elettrici  al piano di sopra ove i forni crematori acca ventiquattro cuocevano queste ricette dolciastre, col fumo che incessantemente riscaldava l’aria.
Mentre quelli: tu di là, ritenuti buoni al lavoro e da sterminare si, ma con più calma, venivano portati da un’altra parte, nella cosiddetta sauna, ove denudati, rapati, disinfettati, spogliati di tutto, lavati non si sa come, tatuati con un numero sul braccio, vestiti di un pigiama a righe di cotone, o troppo grande o troppo piccolo, e poi ammassati o nelle baracche di legno del campo stesso di  Birkenau, agghiaccianti esempi di sbrigativa architettura nazista o portati al campo base di Auschwitz, quello con la scritta famosa, il lavoro rende liberi, e lì sistemati nei blocchi, dei grossi padiglioni in muratura, che se non altro avevano un aspetto normale, addirittura elegante, tipo caserma,  con le scale interne belle di cemento ed una bella ringhiera rotondeggiante e addirittura una stufa rivestita di mattonelle di ceramica in ogni stanzone, ammesso che se ne  facesse uso.
A tutto questo ero abbastanza preparato. Forse meno a quelle foto, a quelle figure scheletriche di larve vive e nude, quasi trasparenti e miracolosamente in piedi, con faccia inespressiva, ove si faticava a capire se fossero di sesso maschile o femminile, e lo sguardo andava meccanicamente ai genitali, faticando a trovarli tanto da ritenere del tutto privo di qualsiasi dignità umana tutto ciò che vi  era raffigurato , indistinguibile  da quei mucchi montagnosi  di scarpe, di occhiali, di capelli, di pennelli da barba o spazzole. Per poi scoprire poco dopo con stupore altre foto,  le foto esposte che queste stesse larve custodivano nelle valige, foto di prima dell’incubo, dove vedevi gente ben vestita e ben nutrita che suonava il pianoforte, intere famiglie felici a tavola, alberi di natale ben addobbati, amici abbracciati davanti ad una motocicletta, un bambino con un espressione maliziosa che spinge a mano una bicicletta per grandi, la ragazza bionda con un sorriso smagliante che si stringe al petto il suo cane adorato, il bambino di due anni col broncio, che non voleva forse farsi fotografare i boccoli. Capivi allora che quelle larve disumane erano stati uomini, donne, bambini, esattamente come noi, meglio di noi e allora ti vedevi anche tu larva, anche tu deportato , anche tu ad accettare foss’ anche quella vita, senza darti la morte subito andando addosso al filo spinato ove scorreva trifase a 380 volts,  prima che gli altri te la somministrassero in un modo più atroce, torturandoti nell’attesa. Non ero preparato forse a quella meticolosità che voleva annotati sui registri da parte dei medici nazisti nel Khirurgic block tutti i dati di coloro che furono uccisi in piedi, con una puntura intracardiaca di fenolo, facendogli credere che si trattava di una vaccinazione, prendendosi cura di annotare qui il nome, qui il peso, l’altezza, la dose, i secondi dalla puntura al decesso, facendomi vergognare seduta stante come medico, prima che come uomo.
Non ero preparato al cosiddetto blocco della morte, ove venivano rinchiusi i deportati  che “sgarravano” in qualche modo (mi chiedo quale), rinchiusi in celle ove dovevano stare in piedi giorno e notte, in quaranta persone in due tre metri quadri, ad attendere che arrivasse e si insediasse, nella prima stanza del piano terra, quella a sinistra ove spicca un tavolo lungo, un “tribunale” che doveva giudicarli. Giudicarli? Questa è buona! Giudicarli: e secondo quali leggi? Per lo più poi venivano portati nel cortile adiacente e lì uccisi con una fucilata alla testa, al muro delle fucilazioni, con le finestre di sinistra di quell’assurdo cortile del tutto oscurate da pannelli di legno, tanto per non permettere ai rinchiusi di vedere, solo sentire, solo sentire gli spari e qualche urlo appena appena,  mentre per le finestre di destra nessun problema in quanto finestre del blocco della morte, alla quale tutto è permesso. Oppure, se c’era la possibilità, farli morire di fame, sempre che non ci fosse urgenza  di celle, perché la morte per fame richiede tempo, oppure magari buttando lì,  en passant,  qualche pastiglia di cianuro, incrementando di volta in volta la dose, giusto per saggiarne l’effetto . E tanto per arricchire il panorama dei metodi di uccisione, non mancava la travetta ferroviaria, un binario che gli era evidentemente avanzato, sospeso tra due pali, ove magari se si tentava la fuga senza crepare folgorati  si poteva avere il privilegio di essere impiccati, senza darsi la pena di sentire lo sparo che ti entra nel cervello, o dimenarti tra le feci per il gas che ti sta spegnendo le funzioni vitali,  o patire la fame fino a strisciare per terra prima di esalare l’anima . Un vero privilegio, la forca. Per non parlare poi delle morti per il freddo e le malattie, che mietevano vittime come spighe di grano, tra epidemie di tutti i generi, molte veicolate da vettori come i topi, che lì avevano trovato l’america.

Il treno ha preso finalmente velocità e i ragazzi sono più tranquilli. Io penso al ghetto di Cracovia che  ci hanno portato a vedere il primo giorno . A quando  ammassarono  decine di migliaia di persone in un quartierino che ne poteva contenere al massimo qualche centinaio, in case requisite  ai polacchi, evacuati offendo loro ben altre sistemazioni, mentre gli ebrei venivano ammucchiati a condividere in numero spropositato camere, cucine, bagni, con una razione giornaliera di 300 calorie pro-capite, senza potere lavorare, potere uscire dal ghetto, potere parlare, mentre il tram numero 3 che lo  attraversava e lo attraversa ancora  al quale gli ebrei non potevano nemmeno avvicinarsi,  era pieno di polacchi che guardavano e magari scrollavano le spalle  o qualcuno buttava un pezzo di pane, come talora si fa con i cani. Mi sembra di sentire le voci di quelle bambine (le bambine si sa hanno tutta una loro sensibilità e parlano, magari scrivono pure; i maschetti sono più virili, non amano sporcare pagine di inchiostro con queste tragedie) che con l’anima a pezzi devono lasciare la loro casa, il loro giardinetto, la loro cameretta, l’amica del cuore che magari è polacca e non verrà nel ghetto. I tedeschi hanno delimitato il ghetto con un muro altissimo, fatto costruire dagli stessi ebrei sotto la minaccia dei mitra, del quale rimane un pezzetto. La naturale crudeltà li ha portati disinvoltamente a dare al muro una foggia di tomba: la sagoma riproduce tante tombe jaddish, una accanto all’altra: per chi non lo avesse capito il ghetto è un cimitero di vivi che presto saranno morti. E mi stupisco che un farmacista polacco abbia potuto volere tenacemente e pericolosamente mantenere la sua attività all’interno del ghetto, lì all’angolo: quanti grattacapi avrà dato al comando tedesco. Poi immagino le discussioni: strappiamogli i coglioni a ‘sto farmacista, impicchiamolo in piazza, impaliamolo sulla Vistola ghiacciata, ma poi lo lasciarono fare, forse per non crearsi complicazioni con i polacchi , che tutto sommato se ne stavano buoni buoni forse  sperando sotto sotto in un qualche vantaggio da tutta sta situazione. L’ebreo che deve andare nel ghetto può portarsi non più di 25 kg di roba, se ne porta di più sono cazzi: me li vedo con ‘ste valige, ‘ste sedie, ‘sti canarini…tutti ‘sti mobili lasciati, ‘sti libri, ‘sti spartiti, ‘sto passato che pesava nulla e poteva essere portato di contrabbando. Razza inferiore, dicevano, portatori di malattie, usurai, rompicoglioni, tirchi, ammazzatori di Gesucristo, barbuti puzzolenti, allergici all’acqua e al sapone,  megagramo, vil razza bastarda….E ho il sospetto che la maggior parte dei non ebrei non faceva una grinza; quando il razzismo non tocca noi, è tollerato e persino coccolato, fa parte dell’uomo. Che poi, dico io, valeva la pena di erigere tutto quel muro assurdo cimiteriale se poi dovevano tradurli in massa al campo di concentramento appena fuori la città, ove l’ufficiale psicopatico (ma ditemi chi non lo era) usciva al mattino sulla terrazza della sua casa, che dominava il campo, divertendosi al tiro al bersaglio.  I suoi  preferiti erano i bambini: bersagli più difficili, soprattutto quando erano lontani e per quel vizio  di non stare mai fermi. Ci hanno fatto entrare in gruppi in una saletta, ove dei bravissimi attori hanno recitato con delle valige in mano il dramma di chi viene deportato, o nei campi o nel ghetto, e ancora fa ragionamenti da persona normale, ancora ha dei sentimenti, cognizioni di storia e di diritto, conoscenze di matematica, ideali, progetti di futuro. Nel vedere la rappresentazione non posso qui nascondere l’emozione che mi prese: in un brivido che mi scosse tutto capì la mia vita, un bisogno impellente  di scrivere, di testimoniare.

Le foreste polacche che vedo dal finestrino sotto una  neve pesantissima non potevano farci nulla,  erano spettatori innocenti di quella massa di persone che transitavano su  questi stessi binari sui quali stiamo correndo nella direzione opposta. Si, ma gli altri? Le non-foreste? Gli uomini parlano, non sono come gli alberi. Tutti sapevano dello sterminio. Perché allora non veniva fermato? Questa domanda irrisolta mi suscita inquietudine e da questa passo ad altre domande che mi sono sempre fatto: perché non hanno bombardato i binari? Perché la chiesa non ha condannato l’orrore, tacendolo, o negandolo o sopportandolo? Forse perché non erano faccende che  riguardavano i cristiani cattolici di santa romana chiesa con le sue belle messe e feste comandate tra paramenti , pastorali, pecorelle smarrite? Come pure, mi chiedo ora, come è possibile che quelle poche volte che sono andato negli Stati Uniti prima dell’atterraggio ho dovuto compilare una scheda verde ove tra la mole impressionante  di domande che mi veniva rivolta ce n’era una che mi chiedeva se avevo collaborato  in qualche modo alla persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti.  Mi veniva da scrivere: io no di sicuro, perché non ero nato, ma voi, non sapevate? Non potevate voi sganciare qualche piccola  bomba chirurgica (non parlo di quella che poi avreste sganciato su Hiroshima, che Dio ce ne  scampi) o liberare i campi in altro modo, scegliete voi quale, fermando il massacro prima che raggiungesse proporzioni assurde, facendo quello che tutti i giusti del mondo virtualmente vi chiedevano?

17 febbraio 2012. La notte del treno della memoria sulla via del ritorno è passata bene, tra sonno, canti e scambio di panini. Abbiamo attraversato mezza Europa, fino a Vienna consapevolmente, poi vinti dal sonno inconsapevolmente, trascinati da questo treno che, ironia della sorte, è tedesco, ma non ha i vagoni piombati. Ora che è mattina capisco che la memoria serve, ma non basta,  che le emozioni sono importanti, ma non servono a molto per progredire.  Milan Kundera raccontava di essersi una volta commosso vedendo delle foto di Hitler bambino : gli era sembrato impossibile che quel bambino sarebbe poi divenuto un mostro, l’idea dell’infamia era stata  come risucchiata  dall’emozione di un momento. Ecco allora che di riflesso ricordo quello che si chiedeva Primo Levi: se questo è un uomo. E io la risposta ora ce l’ho: si, è un uomo. E’ un uomo come noi, sono uomini come noi che hanno fatto tutto questo. Teoricamente, anche noi avremmo potuto parteciparvi. Ecco perché le emozioni non bastano. Serve la conoscenza. Dobbiamo capire perché è successo e cos’è  che trasforma un essere umano in un mostro. Auschwitz non è che un tassello di un mosaico infinito di massacri che si va componendo da quando c’è l’uomo. Anzi, forse occupa una posizione di privilegio informativo rispetto a tanti altri meno noti. Genocidi in Armenia, in Bosnia, in Palestina, Jugoslavia,  in Africa, dittature sanguinarie che hanno soffocato ogni anelito ai diritti fondamentali della persona umana, gulag dove rinchiudere ed eliminare  a milioni persone sgradite, posti occulti  come Katin, che nessuno conosce, ove senza che si sappia perché decine di migliaia di persone polacche, tra cui molti medici, sono state uccise una dopo l’altra con un colpo alla testa, dai russi. Genocidi di popolazioni indigene del centro, del sud e del nord America, perpretrati ad opera dei colonizzatori europei, spesso con ostentazione di croci, come secoli prima in Terrasanta. Gente torturata e uccisa con il fuoco o con altro sistema non meno crudele per le proprie idee, il proprio credo, il delirante sospetto di eresia, teste che sono volate a centinaia dal colle della Minerva direttamente alle teche della cattedrale a Otranto…Basta!

Troppo lunga è la storia. Troppo grande è la bruttura per cercare di fare finta di niente, per emozionarsi e basta. Occorre invece ben altro. Occorre capire  che il male è dentro ognuno di noi e che può emergere facendo di noi un aguzzino nazista. Questa è forse  la sfida. Questo il segnale  che  tutti questi giovani pieni di vita e di smisurata energia di questo treno  devono raccogliere . Il bisogno di  conoscenza, di  ricerca. Sono loro che scopriranno forse le motivazioni, le cause, l’antitodo.
Le malattie non si curano con le lacrime, ma  comprendendone la causa, per  trovare il rimedio. Ci sarà una causa, un meccanismo, una soluzione. A  tutti  il compito prezioso di scoprirli  e farne partecipe l’umanità, prima che sia tardi.

 

Marcello Costantini